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La comunità che non esiste
Olivier Roy, Le Monde, Francia
I francesi si sentono minacciati dai musulmani, accusati di
mettere la religione davanti alle leggi dello stato. Ma è una
paura infondata.
L’emozione suscitata in Francia dall’attacco a Charlie Hebdo è
qualcosa di più di una reazione d’orrore o di una manifestazione
di solidarietà: è un fenomeno sociale.
Perché quest’attentato terroristico è più di un semplice crimine: è un evento politico.
Non solo perché è il peggior attentato commesso in Francia dal 1961 o perché ha colpito
la libertà d’espressione e di stampa, ma anche perché trasforma un dibattito intellettuale
in una questione esistenziale. Rilettere sul legame tra islam e violenza signiica
rilettere sul posto dei musulmani in Francia.
È una questione esistenziale perché riguarda la coesione della società francese,
secondo qualcuno minacciata da una presenza musulmana che va oltre il semplice
fenomeno demograico (e questa è ormai l’opinione dominante), secondo altri minacciata
da una paura dell’islam alimentata da pochi terroristi (è la variante antirazzista
di questa preoccupazione sul “vivere insieme”: il rischio maggiore in questo caso
sarebbe l’ostracismo sempre maggiore verso i musulmani di Francia).
Rovesciamento
Al di là dell’aspetto della sicurezza, perfettamente gestibile, la sida riguarda la presenza
dei musulmani in Francia. Una sida che era emersa ben prima dell’attentato
contro Charlie Hebdo, ma solo in termini “localizzati” dal punto di vista politico:
l’ossessione populista contro l’immigrazione, le ansie civilizzatrici di una destra conservatrice
che si rifà a un cristianesimo identitario, la fobia antireligiosa di un laicismo
proveniente da sinistra che si è trasformata in un discorso identitario “acchiappavoti”
nella versione proposta dal Front national. La preoccupazione suscitata dall’islam
e dai musulmani che vivono in Francia è ormai diventata un tema più ampio, meno
connotato politicamente, che supera i conini tra le famiglie ideologiche, e dunque
non deve più sottostare a un trattamento moralizzatore o colpevolizzante. Non serve
a niente prendere di mira il Front national: i suoi temi fanno parte ormai del dibattito
pubblico e il giochino di individuare il responsabile non ha quasi più senso.
Due diversi discorsi si contendono lo spazio pubblico. Nel discorso dominante, il
terrorismo è l’espressione esacerbata di un “vero” islam che si ridurrebbe di fatto al riiuto
dell’altro, alla supremazia della sharia e al jihad conquistatore, anche se queste
scelte si fanno più per errore e per risentimento che per la certezza di possedere la
verità. In parole povere, ogni musulmano avrebbe una specie di software coranico
impiantato nel subconscio, che lo rende in ogni caso non assimilabile, a meno che non
proclami a gran voce la sua conversione pubblica a un improbabile islam progressista,
femminista e gay-friendly. Questa richiesta di “sottomissione” è ricorrente
(“perché voi musulmani non condannate il terrorismo?”). Ed è certamente per antinomia
che lo scrittore Michel Houellebecq nel suo ultimo romanzo ha ribaltato questa
sottomissione. Il secondo discorso, minoritario e che fatica a farsi sentire, lo deinirei “islamicoprogressista”
ed è portato avanti da musulmani più o meno credenti e dal movimento
antirazzista. Not in my name, non in mio nome: l’islam dei terroristi non è il mio islam,
e non è nemmeno l’islam, che è invece una religione di pace e tolleranza. La vera minaccia
sono l’islamofobia e l’emarginazione, che spiegano, senza giustiicarla, la radicalizzazione
dei giovani. Pur partecipando al coro della grande narrazione dell’unità nazionale,
gli antirazzisti aggiungono una nota: attenzione a non stigmatizzare i musulmani.
La giustapposizione di questi discorsi porta a un’impasse. Per uscirne bisognerebbe
chiarire un po’ di fatti che non vogliamo vedere: i giovani radicalizzati non sono
l’avanguardia o i portavoce delle frustrazioni della popolazione musulmana e, soprattutto,
non esiste una “comunità musulmana” in Francia.
L’illusione dei convertiti
I giovani radicalizzati, pur rifacendosi a un immaginario politico musulmano (la umma
delle origini), sono in rotta sia con l’islam dei genitori sia con le culture delle
società musulmane. Così inventano un islam da contrapporre all’occidente. Questi
giovani vengono dalla periferia del mondo musulmano (cioè l’occidente: basti pensare
che il Belgio fornisce al gruppo Stato islamico un numero cento volte superiore di
jihadisti rispetto all’Egitto, in proporzione alla popolazione musulmana presente sul
territorio), si muovono in una cultura occidentale della comunicazione, della teatralità
e della violenza, incarnano una rottura generazionale (i genitori ormai si rivolgono
alla polizia quando i igli partono per la Siria), non sono inseriti nelle comunità
religiose locali (le moschee di quartiere), si radicalizzano autonomamente su internet,
perseguono il jihad globale e non sono interessati alle lotte concrete del mondo musulmano
(la Palestina). In breve non lavorano all’islamizzazione delle società, ma alla
realizzazione della loro illusione di eroismo malato (“ho vendicato il profeta”, ha proclamato
uno degli assassini di Charlie Hebdo). Il gran numero di convertiti tra i jihadisti
(secondo la polizia francese sono il 22 per cento di quelli che sono andati a combattere
per il gruppo Stato islamico) dimostra che solo una frangia marginale dei giovani
musulmani è interessata dalla radicalizzazione. Al contrario, i fatti dimostrano che i musulmani
francesi sono più integrati di quanto si pensi. Ogni attentato di matrice estremista
islamica causa di solito almeno una vittima musulmana tra le forze dell’ordine:
come Imad ibn Ziaten, il militare francese ucciso da Mohamed Merah a Tolosa nel
2012; o Ahmed Merabet, il poliziotto ucciso mentre cercava di fermare il commando
degli assassini di Charlie Hebdo. Ma invece di essere citati come esempio, sono indicati
come controesempio: il “vero” musulmano è il terrorista, gli altri sono eccezioni. Da
un punto di vista statistico, però, è falso: in Francia i musulmani nell’esercito, nella polizia
e nella gendarmeria sono più numerosi di quelli nelle reti di Al Qaeda, per non
parlare di quelli che lavorano nella pubblica amministrazione, negli ospedali, nei tribunali
o nella scuola. Un altro luogo comune sostiene che i musulmani sono restii a condannare il terrorismo.
Invece, internet trabocca di condanne e di fatwa contro il terrorismo. Se
questi fatti smentiscono la tesi della radicalizzazione della popolazione musulmana,
perché non riescono a imporsi? Perché ci si interroga tanto su una radicalizzazione che riguarda solo i margini? Perché alla popolazione
musulmana si attribuisce uno spirito di appartenenza comunitaria e poi la si accusa
di dissimularlo. Ai musulmani si rimprovera di essere propensi a concepirsi come
comunità, ma poi gli si chiede di reagire al terrorismo come farebbe una comunità.
Siamo in presenza di ciò che si deinisce un doppio vincolo: siate quello che vi chiediamo
di non essere. Se a livello locale, quello dei quartieri, si
può constatare uno spirito di appartenenza alla comunità, questo non avviene a livello
nazionale. I musulmani francesi non hanno mai avuto la volontà di dar vita a istituzioni
rappresentative e ancor meno a una lobby musulmana. Non s’intravede nemmeno la
possibilità che nasca un partito islamico; i candidati alla vita politica d’origine musulmana
si dividono nell’intero spettro politico francese (compresa l’estrema destra). Non
esiste un voto musulmano (e il Partito socialista l’ha scoperto a sue spese).
Scongiurare l’isteria
Non ci sono reti di scuole musulmane (meno di dieci in tutta la Francia) né forme di
mobilitazione di piazza (nessuna manifestazione per una causa islamica ha mai raccolto
più di qualche migliaio di persone), le moschee di grandi dimensioni sono pochissime
(e quasi sempre inanziate dall’estero) ma ci sono molte piccole moschee. Se esiste
uno sforzo di instillare uno spirito di comunità, viene dall’alto, dagli stati, non dai cittadini.
Le presunte organizzazioni rappresentative, dal consiglio francese del culto
musulmano alla Grande moschea di Parigi, sono sostenute dagli sforzi del governo
francese e di quelli stranieri, ma non hanno legittimità locale. In breve la “comunità”
musulmana soffre di un individualismo molto gallico e si ribella al bonapartismo
delle élite. E questa è una buona notizia. Eppure non si fa altro che parlare di questa
famigerata comunità musulmana, a destra e a sinistra, per denunciare il riiuto di
integrarsi o per farne una vittima dell’ostilità verso l’islam. I due discorsi opposti si basano
di fatto sulla stessa illusione. Non esiste una comunità musulmana, ma una popolazione
musulmana. Ammetterlo sarebbe già un buon modo per scongiurare l’isteria
presente e futura.