«Il 25 novembre 1996, al termine di un'inchiesta serrata che si basa
anche su una perizia contabile di ben 13mila pagine svolta dal prof.
Renato Castaldo, la Procura di Roma chiede il rinvio a giudizio per il
reato di abuso d'ufficio dell'ex presidente dell'Iri Romano Prodi -
nel frattempo diventato Presidente del Consiglio - e di altri cinque
componenti del consiglio di amministrazione dell'ente: Mario Draghi,
Paolo Ferro Luzzi, Giuseppe Glisenti, Antonio Patroni Griffi e Roberto
Poli. Richiesta di rinvio a giudizio anche per Carlo Saverio
Lamiranda, in quanto legale rappresentante della Fisvi.
Le accuse del pm Geremia sono molto circostanziate: Prodi e gli altri
membri del Consiglio di Amministrazione dell'Iri avevano
intenzionalmente avvantaggiato la Fisvi di Lamiranda. Prodi, in
particolare, fin dal 1990 aveva rivestito la carica di advisory
director della Unilever Nv (Rotterdam) e della Unilever Pic (Londra),
gruppo che secondo le indagini aveva gestito la trattativa attraverso
la Fisvi. Stando all'accusa, Prodi aveva consentito alla Fisvi di
acquistare la Cirio-Bertolli-De Rica (da qui in poi CDB, ndr) senza
che la stessa avesse i mezzi per realizzare l'operazione. Lo scopo era
quello di far avere alla Unilever il ramo olio (Bertolli) dell'azienda
per 253 miliardi.
Così facendo Prodi aveva permesso che venisse a conclusione
un'operazione molto complicata: la Unilever, di cui lo stesso era
advisory director, poteva accaparrarsi il ramo olio, settore
strategico del gruppo, senza sopportare gli obblighi di natura
finanziaria derivanti dalla stipula del contratto di acquisto
direttamente dall'Iri. Lo stesso Prodi, in questo modo, evitava il
conflitto di interessi. Inoltre l'Iri aveva venduto la CBD violando le
direttive del Cipe che prescrivevano il conseguimento del miglior
prezzo.
Ma non è finita. L'Iri, così facendo, aveva ripetutamente consentito
la modifica delle condizioni dello schema di contratto in modo del
tutto favorevole all'acquirente senza alcun vantaggio, anzi con danno,
per l'Iri. La cessione delle azioni della CBD era inoltre avvenuta
sulla base della valutazione di una società, la Parifin, che non aveva
valutato la reale consistenza patrimoniale della Fisvi e la sua
capacità di reddito, fidandosi soltanto dei dati di bilancio.
Come se non bastasse, Prodi e i suoi amministratori in seno all'Iri,
anziché valutare la possibilità di vendere separatamente i comparti
alimentari della CBD, li cedevano tutti alla Fisvi. E questo anche se
la Fisvi non solo non aveva indicato i mezzi finanziari per far fronte
al pagamento del pacchetto azionario, ma era riuscita ad ottenere
perfino una modifica delle condizioni contrattuali. Il lavoro
investigativo della dott.ssa Geremia non si svolge con serenità.
L'inchiesta Iri-CBD è appena cominciata e quella del consulente
Castaldo è in corso, ed ecco che il Pubblico Ministero comincia a
subire una serie di atti intimidatori: insulti telefonici, telefonate
silenziose, avvertimenti, minacce.
Siamo nell'ottobre-novembre 1996. E' la prima volta che in un processo
per corruzione arrivano intimidazioni così pesanti. Geremia non si
scoraggia e va avanti. Nessuno fino a quel momento sa di quelle
minacce che raggiungono la giovane inquirente anche a casa, nella sua
abitazione romana, dove vive con l'anziana madre.
E' in quello stesso periodo che la Geremia dissotterra un altro
cadavere giudiziario: il processo sull'Alta velocità con dentro
l'affare Nomisma, che - secondo i pm di La Spezia e di Perugia - era
stato insabbiato nella capitale da Giorgio Castellucci.
Le minacce e gli insulti si intensificano. L'origine è ignota, ma il
movente sembra celarsi in quell'inchiesta scottante sulla vendita
della CBD. La Geremia comincia a preoccuparsi. A distanza di anni, ad
Imposimato ha confidato: "La cosa strana è che il numero del mio
telefono di casa era riservato e solo poche persone lo conoscevano.
Come abbiano fatto a trovarlo per me resta un mistero". La Geremia
decide allora di denunciare la tortura psicologica cui è sottoposta,
ormai a ritmi incessanti, al commissariato di polizia presso la
Procura di Roma, a piazzale Clodio. Lo fa il 7 novembre 1996, 18
giorni prima di chiudere l'inchiesta Iri-CBD. Informa anche
dell'accaduto il procuratore capo di Roma, Michele Coiro che quel
processo tanto delicato le aveva affidato.
Nel frattempo una tempesta si sta addensando proprio sulla testa di
Coiro. Il CSM lo accusa di avere rapporti di frequentazione con il
capo dei Gip Renato Squillante, arrestato per corruzione. [...] Sta di
fatto che pochi giorni dopo aver raccolto lo sfogo della Geremia,
Coiro è costretto a lasciare la Procura di Roma per assumere la guida
della direzione generale degli uffici di detenzione e pena del
ministero della Giustizia, refugium peccatorum dei magistrati in
disgrazia. [...] "Michele Coiro era un magistrato di valore e un grande
amico - ha spiegato la Geremia ad Imposimato - la sua morte è stata un
duro colpo per me. Mi ha sempre lasciato piena libertà nell'inchiesta
sulla Cirio. Non glielo hanno perdonato. Lo hanno costretto a lasciare
la procura di Roma sette mesi prima di andare in pensione".
Nonostante i segnali si facciano sempre più evidenti, Geremia continua
nella sua indagine che di giorno in giorno si arricchisce di nuovi
tasselli. La sua percezione è ormai quella di avere toccato interessi
forti, di quel governo invisibile che agisce con tutti i mezzi pur di
raggiungere i suoi obiettivi.
Il 25 novembre 1996 un uragano si abbatte sul Palazzo di Giustizia di
Roma. Come abbiamo visto Geremia chiede il rinvio a giudizio di Prodi
& company per l'affare Cirio. Anche il procuratore aggiunto Giuseppe
Volpari, che con le funzioni di reggente sostituisce Coiro, appone la
sua firma in calce al provvedimento.
All'udienza preliminare del 15 gennaio 1997 il Gip Eduardo Landi
decide di non decidere e rinvia la richiesta della Geremia all'udienza
del 28 febbraio. E intanto la Geremia continua a ricevere minacce. Una
sera, rincasando, nella cassetta della posta trova una busta
contenente una sua fotografia, ritagliata da un giornale, e un
coltellino. Questa volta il segnale è ancora più serio.
Inequivocabile. I misteriosi personaggi che la perseguitano sembrano
decisi a tutto. Informa dell'accaduto il responsabile della Procura di
Roma. Denuncia l'episodio al commissariato Vescovio. L'Italia sta per
entrare in Europa. Man mano che l'inchiesta Iri-Cirio si avvia al suo
luogo naturale, il processo, i pericoli per lei aumentano.
Il giudice Eduardo Landi, nell'udienza preliminare del 28 febbraio,
decide che la perizia Castaldo non è sufficiente. Affida quindi ad un
collegio di cinque esperti tutta una serie di quesiti legati alle
accuse formulate dalla Geremia. A Milano, in casi del genere, non sono
mai state disposte perizie. Tra l'altro Landi chiede ai periti una
valutazione sul prezzo del gruppo agroalimentare Cirio-Bertolli-De
Rica. Strano, perché la Geremia non ha mai fatto questione di prezzo,
sollevando invece la questione del vantaggio per la Fisvi ai danni
dell'Iri.
L'indagine tecnica è molto accurata e si risolve in una perizia di 612
pagine. Il 22 dicembre 1997 il Gip Landi conclude l'udienza
preliminare, assolvendo gli imputati con formula piena: il fatto non
sussiste. E qui comincia un'altra singolarità. La sentenza Landi
sarebbe dovuta essere depositata entro il 23 gennaio 1998. Così però
non è. Geremia l'attende per poter proporre l'impugnazione alla Corte
d'Appello. La sua è un'attesa vana. La sentenza giunge sul suo tavolo
nel pomeriggio del 9 febbraio: due giorni prima Giuseppina Geremia era
stata trasferita alla Procura Generale di Cagliari. Nessuno proporrà
impugnazione contro la sentenza di assoluzione di Prodi & company.
Nella sentenza di 47 pagine il giudice Landi si sofferma a lungo sul
capo di imputazione, il reato di abuso in atti d'ufficio, la cui
formulazione è stata sostituita dal parlamento con una legge del 16
luglio 1997, una legge nuova, intervenuta proprio mentre l'udienza
preliminare che vede sul banco degli imputati Romano Prodi è ancora in
corso.
Landi osserva correttamente che la nuova ipotesi di abuso - voluta
fortemente dall'allora capo dello stato Oscar Luigi Scalfaro e varata
con il pieno appoggio dell'allora Ministro della Giustizia Giovanni
Maria Flick, grande amico (inutile ricordarlo) dello stesso Prodi - è
"più favorevole all'imputato". E questo non solo "avuto riguardo al
più mite trattamento sanzionatorio - pena da sei mesi a due anni in
luogo della precedente da due a cinque anni - bensì per la
trasformazione del delitto da reato di pura condotta o di pericolo,
sorretto dal dolo specifico, in reato di evento, in cui il vantaggio
patrimoniale o il danno ingiusto devono essere cagionati
intenzionalmente". Leggendo la sentenza di Landi si ha la sensazione
che questa modifica della legge, votata da maggioranza e opposizione,
abbia avuto un peso determinante nell'assoluzione di Prodi. Landi non
si chiede - e non ne aveva l'obbligo - se Prodi e soci sarebbero stati
condannati secondo la vecchia legge. Molti imputati di tangentopoli,
giudicati tempestivamente, in base alla vecchia legge per fatti anche
meno gravi di quelli attribuiti al prof. Prodi sono stati duramente
condannati a pene severe e sono finiti in galera. Qualcuno è arrivato
persino a suicidarsi, prima ancora del processo. Ne siamo lieti per
Prodi, assolto con formula piena. Ma sarebbe interessante conoscere
per intero la verità storica di questa vicenda che continua a rimanere
oscura ed inquietante»