Fino a che punto caleremo le braghe?
È passata l’idea che se una nostra ambasciata viene assalita, un nostro ministro si dimette e loro ci lasciano in pace
23/2/2006
di Giuliano Ferrara
Non è stato soltanto un sanguinoso contrasto tra un lampo d’imbecilità e un rigurgito di barbarie, il caso della T-shirt satanica tra Gemonio e Bengasi, un’arlecchinata ministeriale contro il solito assedio a un consolato occidentale più l’aggiunta di un massacro. Ora che Calderoli se n’è andato, ora che il senso dello stato ha suggerito prudenti dimissioni, ora che è restaurato il picci pucci diplomatico con un paese importante per il nostro approvvigionamento energetico, ora che i biscotti danoni sono finiti in castigo e la Nestlè ha aumentato le sue quote di mercato, ora bisogna domandarsi che cosa vogliono loro da noi e che cosa vogliamo noi da loro, se volere e potere siano ancora due verbi conosciuti alle cancellerie europee e occidentali.
Ci hanno vietato di scherzare su quel che per loro è sacro, anzi un tabù. Un divieto complicato dal fatto che da noi l’unica cosa rimasta sacra è il linguaggio libertario della satira, il nostro tabù laico e secolarista, l’ultimo rifugio dello spirito di Voltaire. Mentre noi disegnavamo e pubblicavamo vignette, loro assaltavano le ambasciate, ammazzavano un prete cattolico al grido «Allah è grande», ci facevano assaggiare il significato della parola “umana”, una comunità mondiale legata nel più puro spirito identitario, fino al fanatismo, da sentimenti di rivalsa etnica, geopolitica e soprattutto profetica. Una comunità in grado di mobilitarsi, di distruggere i nostri simboli e bandiere, di dividerci e umiliarci in molti modi.
Il loro divieto è passato, è già storia. Con loro non si scherza. Ma anche a far sul serio bisogna starci attenti. Guantanamo, prigione di guerre per tempi di guerra, bisognerà chiuderla, prima o poi. Con l’organizzazione terroristica che ha vinto le elezioni palestinesi bisognerà trattare, prima o poi. A manifestare davanti a una loro ambasciata, nel modo più serio e dialogante possibile, ci abbiamo provato, dopo che un loro capo di stato aveva minacciato di cancellare Israele dalla carta geografica; ma anche quella manifestazione politica, che non era una vignetta blasfema o libertaria, fu oggetto di attenzioni, ricatti diplomatici, promesse di ritorsione e di boicottaggio. Tutti gesti andati a buon fine, gesti utili, efficaci.
Se vogliono la nostra umiliazione politica, se la vogliono facendo risuonare la minaccia della rabbia islamica in tutta la comunità, compresa quella insediata a Londra, a Milano, ad Amburgo, a Parigi, ottengono il loro scopo senza troppa fatica. Noi ci teniamo alla sicurezza del nostro personale diplomatico, delle nostre merci, delle nostre metropolitane, e tanto ci teniamo che siamo disposti a subire ogni tipo di pressione, ci dividiamo regolarmente nella risposta, ci odiamo tra noi e ci rimproveriamo di non fare abbastanza per evitare grane. Perfino Berlusconi si è consegnato alla linea del «dialogare, dialogare, dialogare».
E allora spiegateci che cosa vogliamo noi da loro, che cosa teniamo per sacro, che scuse chiediamo e che pressioni facciamo per averla vinta su questioni di un certo peso. I nostri cosiddetti islamofobi, cioè coloro che non vogliono calare le braghe, sono tutti sotto scorta, dalla Fallaci alla Hiroi Ali. Chi per aver scritto un saggio, chi per aver sceneggiato un film sulla condizione della donna nell’islam. Alcuni sono morti come Theo Van Gogh. Cristiani vengono martirizzati o fatti santi. Magdi Allam deve scrivere di nascosto le sue verità, minacciato di morte per apostasia. C’è gente che sa di bruciato, opinioni che non si possono portare in pubblico. È passata l’idea che se una nostra ambasciata viene assalita, il nostro ministro si dimette e loro ci lasciano in pace. L’idea grottesca che il nostro unico strumento sia il dialogo e il loro unico mezzo la guerra. Ciò che vogliamo da loro è di essere lasciati in pace, e per ottenere questo scopo, che è il dogma della religione multiculturale, siamo disposti a tutto, ma proprio a tutto, perfino a riscoprire il sacro e la blasfemia dopo averli aboliti in nome delle virtù laiche del relativismo culturale. Ma la pace ha un cartellino con su scritto il prezzo, e chi non paga non avrà altro in mano che un cumulo sempre maggiore di minaccia e di violenza.