Degli effetti delle leggi dell'ultima legislatura sulle collaborazioni autonome continuative, sostituite dal nuovo «lavoro a progetto», abbiamo già scritto nei giorni scorsi: la materia non è stata certo liberalizzata, ma regolamentata in modo più stringente. Neppure questa forma di lavoro precario ha comunque fatto registrare un'espansione negli ultimi due anni: semmai il contrario. Quanto al «lavoro a chiamata» e al «contratto di inserimento», essi sono stati quasi del tutto ignorati dalle imprese.
La sola conclusione che può trarsi dall'insieme di questi dati è che le misure di politica del lavoro adottate dal governo Berlusconi non hanno prodotto né gli effetti di liberalizzazione del mercato attribuiti loro dal governo stesso, né quelli di precarizazione del lavoro attribuiti loro dall'opposizione. Come per un verso si può escludere che quelle misure abbiano segnato un miglioramento decisivo nelle performances del nostro mercato del lavoro, per altro verso, piaccia o no, si deve escludere che il fenomeno del lavoro precario ne sia stato causato o favorito in modo apprezzabile (alla stessa conclusione arriva, sulla base di dati di fonte in parte diversa, Luca Ricolfi nel suo ultimo libro Tempo scaduto, edito dal Mulino).
Resta da chiedersi perché il precariato sia oggi percepito diffusamente come problema più grave rispetto al passato, visto che la statistica non ne conferma un aumento complessivo rilevante. È ben vero che, secondo gli ultimi dati forniti dalla Banca d'Italia, di coloro che sono passati dal non lavoro nel 2004 a un lavoro dipendente o autonomo nel 2005, il 40,5% l'ha trovato nella forma del contratto a termine, del lavoro interinale o del lavoro a progetto: percentuale che era andata lentamente crescendo negli ultimi anni. Ma se la quota complessiva di quei contratti di lavoro precario resta contenuta ben al di sotto del 20% del totale, questo significa che in due casi su tre (se non tre su quattro) essi si trasformano abbastanza rapidamente in lavoro a tempo indeterminato.
Il problema è che dei casi in cui il lavoro precario funge effettivamente da canale di accesso al lavoro stabile nessuno parla: quelli che «fanno notizia» sono solo i casi in cui questo non accade, in cui il lavoratore resta impigliato a lungo nella trappola del lavoro precario. Ora, può essere che la quota dei «precari impigliati» rispetto al totale sia aumentata più di quanto sia aumentato complessivamente il lavoro precario; ma se questo è il problema, esso non nasce né dalla legge Treu né dalla legge Biagi: esso nasce invece dall'aumento delle disuguaglianze di produttività tra gli individui nella società postindustriale, cui le imprese reagiscono aumentando le disparità di trattamento. Questo problema può essere affrontato soltanto col rafforzare professionalmente i più deboli, o aiutarli a trovare la collocazione in cui possono rendere di più (ciò per cui una fase di maggiore mobilità all'inizio della carriera lavorativa è indispensabile); mentre aumentare il costo del loro lavoro rischia di condannarli alla disoccupazione.
Ridurre drasticamente la possibilità di lavoro a termine o aumentarne il costo — come si propone ora di fare il nuovo governo — può solo rendere la vita più difficile alla parte più debole dei giovani che si affacciano sul mercato. Non dobbiamo dimenticare che nel 1977, quando l'alternativa era soltanto tra il lavoro stabile e la disoccupazione, il contratto di formazione e lavoro (sostanzialmente un contratto a termine, della durata di uno o due anni, con retribuzione ridotta) venne introdotto per iniziativa del sindacato e delle forze politiche di sinistra, proprio per favorire l'accesso dei giovani. E nell'ultimo ventennio attraverso quella «porta» sono passati ogni anno centinaia di migliaia di ragazzi, dei quali — qui i dati disponibili parlano chiarissimo — più di due terzi hanno visto il contratto a termine trasformarsi, alla sua scadenza, in contratto di lavoro ordinario. Il nuovo governo farà bene a non dimenticare quell'esperienza.
Pietro Ichino
26 aprile 2006