
Originally Posted by
ghs
Che la legge non abbia aiutato i giudici è vero. Infatti sono anche loro a chiedere che lo stato chiarisca. Ma è proprio questo il problema: in che direzione? Su quali principi?
Sul rifiuto delle cure, io non conosco bene la cosa, nè nei suoi aspetti medici, nè in quelli giuridici, mi limito a osservarla e a ragionarci su. Mi faccio, appunto, domande sul problema della concessione di un diritto e su quali limiti debba porsi lo stato nel confronti del cittadino. Però so che la ragione dell'esistenza degli stati moderni, dal 1948 in poi, è la condivisione di un principio etico, che genera la possibilità stessa dell'accettazione dell'autorità dello stato e della convivenza fra i cittadini. Questo principio fondamentale è il diritto del cittadino alla vita, senza distinzione di qualità.
Se noi pensiamo che una vita ridotta o breve, condotta da un letto di ospedale o da una sedia a rotelle, sia una vita senza dignità, allora dobbiamo essere disposti a definire uno standard minimo accettabile di qualità della vita. A questo punto, due sono le strade: o ognuno lo definisce per sè, e allora lo stato deve permettere di suicidarsi a chiunque lo ritenga opportuno; oppure è lo stato a deciderlo, segnando chi può vivere e chi può (deve?) morire.
Se lo decide lo stato, con quali criteri può farlo? E' sufficiente la scienza a mettere i paletti, quella stessa scienza che rifiutiamo come "accanimento terapeutico" quando fa quello che sa fare? Se la scienza non basta (e non basta), a cosa riferirsi, tenendo presente che uno stato mette in crisi sè stesso quando parla di vita o morte dei propri cittadini?