di Sandra Amurri
Ha solo 32 anni Henry John Woodcock quando, nel 1999, come prima nomina, arriva alla procura di Potenza ed inizia ad occuparsi di reati contro la pubblica amministrazione. Madre napoletana, padre inglese, liceo classico poi laurea in giurisprudenza con il massimo dei voti. Un ragazzo sveglio, capelli lunghi e barba. Sono trascorsi pochi mesi quando un sabato pomeriggio viene chiamato al carcere di Potenza dove un detenuto tunisino è salito sul tetto e minaccia di gettarsi nel vuoto. Lui non esita ad arrampicarsi fin lassù per convincerlo a scendere. Ma il detenuto quando lo vede urla: «Vattene, tu non sei un giudice, sei Che Guevara». Da sotto un altro detenuto extracomunitario gli risponde: «No, fidati è un giudice, mi ha arrestato tre giorni fa». Un episodio che racconta quanto l’aspetto di quel giudice-ragazzino fosse fuori dai canoni ma lasciasse intravedere una forte umanità. Amico di Rosario Livatino riceve a Messina il premio «Probono Giustizie» intitolato alla memoria del magistrato ucciso dalla mafia. Dopo solo due mesi dall’arrivo a Potenza, chiede l’arresto del dirigente della cancelleria fallimentare del Tribunale per concussione che confessa, patteggia la pena e risarcisce la pubblica amministrazione per circa 80 milioni di euro.
Nel 2002 diventa titolare di un’indagine che sconquassa l’Inail: vengono arrestati il direttore generale, Ricciotti, il Presidente del collegio sindacale, due finanzieri, politici, imprenditori, un generale del Sisde, un banchiere e funzionari dell’Eni per associazione per delinquere e corruzione. Un’inchiesta che si rivela un successo giudiziario in quanto buona parte degli arrestati confessano poi patteggiano, infine restituiscono oltre 3 milioni di euro, mentre quelli che non patteggiano vengono rinviati a giudizio. Woodcock ha della cosa pubblica un rispetto quasi maniacale, al punto da non utilizzare mai l’auto di servizio, perché dice: la benzina costa e va utilizzata quando è necessario. E allora lui continua a spostarsi in moto o con la sua macchina, oppure, quando deve raggiungere Roma, con il pullman. Nel 2003 sgomina una grossa banda di ladri d’auto da smerciare sui mercati esteri con un volume d’affari per milioni e milioni di euro. L’anno dopo il ciclone Woodcock, che - come raccontano i suoi collaboratori e conferma il Procuratore capo di Potenza Giuseppe Galante che lo protegge come un figlio -, vive praticamente in ufficio, torna alla ribalta per la mega inchiesta sui vip, nata da un filone dell’inchiesta Eni-Agip, che coinvolge nomi come il direttore dei servizi parlamentari della Rai Anna La Rosa, Flavio Briatore i due magistrati Francesco D’Ottavi del Consiglio di Stato e Luigi Caruso della Corte dei Conti distaccato alle Poste e all’Anas e l’ambasciatore Umberto Vattani. Inchiesta poi passata per competenza territoriale alla Procura di Roma dove prosegue. Vattani è stato rinviato a giudizio, la posizione degli altri è ancora sub judice e i due magistrati D’Ottavi e Caruso, rinviati a giudizio, si sono «licenziati».Gli attacchi non mancarono. «È un giudice bisognoso di notorietà che ama le moto e la bella vita» gli gridarono contro. Gasparri, all’epoca ministro delle Comunicazioni, lo offese personalmente: è un «pazzo». Woodcock gli aveva consegnato un avviso di garanzia come atto dovuto, atti che vennero inviati a Roma. L’allora ministro per questo si beccò una querela e per questo è stato rinviato a giudizio per diffamazione aggravata. Ma Woodcock finisce anche nel mirino dell’allora ministro della Giustizia Castelli che lo sottopose a procedimento disciplinare per l’inchiesta Inail che aveva visto l’arresto di Stefano Orlando del Sisde, amico personale di Cossiga. Provvedimento conclusosi con il proscioglimento in fase istruttoria da parte della commissione disciplinare del Csm. Proscioglimento che Castelli ha impugnato dinanzi alle sezioni unite civili della Corte di Cassazione che hanno ribadito il proscioglimento di Woodcock condannando il ministro al pagamento delle spese processuali. Fatto raro quando una delle due parti processuali è la pubblica amministrazione tanto che nella sentenza i giudici della Suprema Corte utilizzano parole dure nei confronti di Castelli e dell’avvocatura dello Stato che lo difendeva. Dopo due anni il pm di Potenza con le sue inchieste torna a scuotere il mondo che conta oltrepassando i confini nazionali. Gli attacchi ricominciano ma lui continua ad osservare la regola di sempre: il silenzio limitandosi solo a dire «per me parlano le inchieste, sono sereno» aggiungendo che «chiedere l’arresto è sempre triste a prescindere che si tratti di un principe o di un extracomunitario, con la differenza che quando in manette finisce un povero cristo nessuno ti attacca».
Un grande.